In preparazione alla festa di san Giovanni Bosco, il 29 gennaio 2015, alle ore 19,30 nell'Aula II dell'Università Pontificia Salesiana di Roma, il prof. Michal Vojtáš ha tenuto una lezione sull'eredità pedagogica nella Congregazione salesiana tra la morte di don Bosco e la morte del sua quarto successore, d. Pietro Ricaldone. Oltre al link delle slides, offriamo anche il testo completo della lezione.

 

1. Il periodo di Michele Rua e Paolo Albera: primi due successori di don Bosco (1888 – 1921)

1.1.  Le linee tracciate da don Rua nella logica della fedeltà a don Bosco

La lunga collaborazione di Michele Rua con don Bosco, il fascino e lo sviluppo dei primi anni della Congregazione e la vivacità dei ricordi del Fondatore orienta il Rettorato di Rua a scegliere la fedeltà a don Bosco come linea principale del governo della Congregazione.

Questa si esprime in diverse modalità, ma è soprattutto legata al metodo dell’amorevolezza nell’educazione. Don Rua commenta gli esiti del Capitolo Generale VIII con il promemoria dello «Stretto dovere di possedere lo spirito e di vivere la vita Salesiana. Ciò consiste nel lavorare, specie a pro della gioventù, collo spirito e col sistema di Don Bosco, tutto improntato di dolcezza e di bontà». Non mancano soventi? richiami all’applicazione del sistema preventivo nel contesto dei castighi e della disciplina all’interno dei collegi salesiani.

         L’applicazione del sistema preventivo non è espressa solo nel contesto “anti-repressivo” della disciplina, ma si accentua anche parlando dei due principi educativi propositivi: lo zelo che anima l’attività educativa e l’educazione del cuore. Si evoca dunque lo zelo del da mihi animas caetera tolle di don Bosco che «non diede un passo, non pronunziò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù». La cornice entro la quale vanno interpretate le indicazioni sullo zelo è lo sviluppo numerico e geografico della Congregazione. Don Rua raccomanda che lo zelo e il buon volere sia «congiunto ad una grande purità d’intenzione, sia inaccessibile ad ogni scoraggiamento, e sia mai sempre guidato dall’ubbidienza».

Il secondo tema integrativo, legato allo zelo e alla carità, è l’educazione del cuore. Per essa non si intende né sentimentalismo, né educazione delle emozioni. Piuttosto il cuore è considerato quale centro delle convinzioni profonde, dell’agire morale e delle motivazioni. In questo senso tale educazione caratterizza sia il metodo educativo – educare con amorevolezza e pazienza ma senza sdolcinature – che il nucleo teleologico della proposta salesiana – educare buoni cristiani e onesti cittadini.

L’educazione del cuore, nella visione di don Rua, ha anche un aspetto di profondità e di permanenza. Egli infatti raccomanda di educare nei giovani convinzioni radicate nel cuore che produrranno frutti anche quando gli allievi non saranno più presenti nelle case salesiane. Attraverso l’amorevolezza «le verità seminate ne’ loro cuori erano profondamente radicate e non erano rimaste senza frutto». Collegata con questo tema è la devozione al Sacro Cuore di Gesù, tanto cara a don Rua, presentata nell’emblematica lettera del 21 Novembre 1900.

1.2.                  Le applicazioni di don Francesco Cerruti e don Giuseppe Bertello nelle scuole salesiane

L’implementazione dei suddetti principi si concretizza nella collaborazione con il Consigliere scolastico don Cerruti e con il consigliere professionale don Bertello, che lasciano una forte impronta nell’impostazione delle scuole salesiane. Il programma di don Cerruti di «fare della scuola una missione» vede nella finalità della scuola non solo quella di preparare il giovane all’esame, ma di prepararlo «pure e anche di più alla vita, e vita davvero cristiano-cattolica, formando ad un tempo di lui l’uomo e il cittadino o meglio tutto l’uomo». Nelle linee tracciate è percepibile la reazione di don Cerruti verso l’impostazione scolastica dello Stato laico ispirata dalle teorie positiviste, veriste e socialiste. Nella sua circolare più lunga del 1910, che diventerà il fondamento del suo Ricordino educativo-didattico, egli infatti specifica che «istruzione non è educazione […] è adunque istruzione un’ausiliaria dell’educazione».

Un simile impegno di coordinamento nel settore delle scuole professionali è svolto dal 1898 al 1910 da don Giuseppe Bertello. Si deve a lui l’attuazione progressiva delle linee di don Rua il quale così auspica rivolgendosi ai salesiani: «Vi rammento che, sia per evitare gravi disturbi, sia per dar loro il vero nome, i nostri laboratori devono denominarsi Scuole professionali». Don Bertello è in linea con l’orientamento di don Cerruti e le indicazioni del CG8 (1898) sulle scuole professionali dove si afferma che tali scuole «non siano solo per avere lavoro, ma per educare e formare buoni e valenti operai».

1.3.                  Le linee orientative per gli Oratori e per gli Antichi allievi

Una delle aree privilegiate del rettorato di don Rua, in linea con la fedeltà a don Bosco, è l’educazione oratoriana. Nel fecondo periodo dei Congressi sugli oratori, don Rua si dimostra protagonista nella promozione del loro sviluppo, caldeggiandone la fondazione e l’accrescimento, l’oculata e creativa gestione, l’instancabile miglioramento e l’apertura ai giovani più avanti in età mediante i Circoli e le Scuole di Religione.

L’insistenza sul tema e, in particolare, i suoi richiami e precisazioni, porta a concludere che l’accoglienza degli orientamenti segnalati non sia sempre stata unanime. Infatti, a fronte di tali aperture, la realtà manifesta problematiche legate alla scarsità dei locali, dei mezzi e del personale. In questo contesto il Rettor Maggiore segnala la priorità dell’amore e dello zelo: «Lo zelo dei confratelli ha supplito la mancanza di questi mezzi».

L’oratorio salesiano è visto come un centro d’irradiazione e viene esplicitamente legato all’Associazione degli Antichi Allievi, nata durante il suo rettorato: «dagli Oratori Festivi all’Associazione degli Antichi Allievi è breve il passo». Vengono segnalate le seguenti finalità educative dell’Associazione: il sostegno vicendevole nel mondo, il mantenimento dello zelo della vita cristiana e sacramentale, il profitto per le famiglie dei membri.

1.4.                  Don Paolo Albera e la linea della pietà nell’educazione

Il secondo successore di don Bosco, don Paolo Albera, non si scosta dalla fondamentale linea della fedeltà a don Bosco con qualche accentuazione proveniente dalla sua sensibilità ed esperienza di catechista generale. Nella sua prima lettera egli cita le parole pronunciate dal santo Padre Pio X nella prima udienza che ebbe come Rettor Maggiore: «Voi non avete a far altro che seguire le tracce di D. Rua. Egli era un santo. In ogni cosa fate come avrebbe fatto egli stesso. Non vi scostate dagli usi e dalle tradizioni introdotte da D. Bosco e da D. Rua».

Lo zelo e le molteplici attività dei salesiani creano il punto di partenza argomentativo della seconda lettera programmatica del superiore sullo spirito di pietà: «A chi di noi non è avvenuto le mille volte di udire a parlare dello spirito d’iniziativa e dell’attività dei Salesiani. Tuttavia, don Albera condivide un suo timore, consistente: «nel doloroso pensiero e nel timore che questa vantata attività dei Salesiani, questo zelo che sembrò finora inaccessibile ad ogni scoraggiamento, questo caldo entusiasmo che fu fin qui sostenuto da continui felici successi, abbiano a venir meno un giorno ove non siano fecondati, purificati e santificati da una vera e soda pietà».

Per Pietà, quindi, don Albera non vuole riferirsi solo ai doveri religiosi e del culto, bensì «al dovere di servire Iddio con quel tenerissimo affetto, con quella premurosa delicatezza, con quella profonda devozione, che è l’essenza della religione».

La pietà, come anima del vero zelo ha implicazioni anche nell’area educativa. Gli educatori, infatti, non dovranno solamente avere cura delle pratiche di pietà ma, radicandosi in Dio, trasformeranno i giovani anche per mezzo della loro testimonianza ed esemplarità. La prospettiva della pietà guiderà il Rettor Maggiore, verso la fine del suo rettorato, ad affermare che «il sistema educativo di Don Bosco, per noi che siamo persuasi del divino intervento nella creazione e nello sviluppo della sua opera, è pedagogia celeste».

  

2. Il periodo di don Filippo Rinaldi e don Bartolomeo Fascie (1922-1931)

2.1. Il magistero di don Filippo Rinaldi sulla scia della paternità vissuta

Filippo Rinaldi vive ed insegna l’arte della paternità come essenza del sistema preventivo. La sua prospettiva di fedeltà alle origini * è equilibrata in quanto coniuga fedeltà allo spirito delle origini e apertura alle novità emergenti: don Bosco ha immesso nel suo metodo educativo «una geniale modernità che, conservando rigidamente lo spirito sostanziale nel suo metodo educativo, le impedisse in pari tempo di fossilizzarsi nelle cose accessorie e soggette a mutare col tempo».

La sana modernità non esclude la cura delle tradizioni che occupa uno spazio consistente nel magistero di don Rinaldi. Nel Convegno dei Direttori degli Oratori festivi d’Europa, svoltosi nel 1929, si tratta dell’uso sapiente delle società calcistiche, degli scout, del gioco come mezzo educativo, della partecipazione dei superiori al gioco per vivacizzarlo, dei teatrini, del cinema e delle attività prosociali, nello stesso tempo, non mancano esortazioni alla cautela e indicazioni pedagogiche circa il dialogo con la cultura.

Il contenuto della paternità che si dona totalmente non è lontano dal concetto di “zelo” di don Rua, e la forma mentis pratica di don Rinaldi lo sviluppa soprattutto negli aspetti applicativi: «L’esercizio esteriore di questa paternità viene nominativamente trasmesso al direttore della Casa. Ora questa tradizione della paternità il Beato l’ha trasmessa ai suoi direttori quasi unita all’atto e alla realtà più sublimi della rigenerazione spirituale nell’esercizio del potere divino di rimettere i peccati». Don Rinaldi afferma che «con il pretesto di evitare qualunque inconveniente, in un primo tempo si passò oltre il dispositivo del Decreto: i Direttori si ritirarono addirittura dal confessare i giovani, cosa che non è affatto proibita a nessun sacerdote approvato, qualunque sia la carica che occupa nell’Istituto».

         Una seconda linea di azione del superiore concerne il rafforzamento di un principio già presente nella Congregazione, quello cioè che collega lo studio della teoria pedagogica con la virtù e la prassi educativa. Nel Convegno dei direttori nell’estate del 1926 don Rinaldi afferma:

«Il Salesiano non è un teorico della pedagogia ma un educatore. Dopo gli elementi indispensabili della teoria, che possono esser dati nella filosofia, bisogna imparare l’arte di educare con la pratica […] Nella vita di Don Bosco vi sono capitoli che ci danno norme di pedagogia pratica. La nostra pedagogia però sta scritta nella vita salesiana […] Ciascuno sia sollecito di studiare di più Don Bosco, di praticare la vita propriamente nostra, le nostre tradizioni […] Il vero trattato è la vita pratica, e le sue pagine sono il cortile, lo studio, il refettorio, la chiesa, il dormitorio, il passeggio».

L’unione tra lo studio e la pratica educativa viene concepita come un insieme quasi indivisibile e legato alla virtù, esemplarità e santità dell’educatore. Come esempio illustre di educatore salesiano è proposta la figura di san Francesco di Sales richiamato anche dal consigliere scolastico Bartolomeo Fascie. Il principio dell’unità tra lo studio e la prassi trova attuazione nel tirocinio pratico richiesto ai salesiani in formazione e nell’accresciuta attenzione ai ruoli educativi all’interno della casa salesiana. Il tirocinio, istituito da don Rua nel 1901, viene valorizzato al punto che nel CG13 si decide di non ammettere i chierici allo studio di teologia fino a che essi non abbiano adempiuto disposizioni circa questa fase formativa.

Con attenzione alla vita concreta, don Rinaldi dà molta importanza ai ruoli all’interno della casa salesiana. Nelle Conferenze rivolte ai chierici di Foglizzo, dal 1913 al 1916, don Rinaldi si sofferma sulla tematica illustrando in dettaglio i diversi ruoli all’interno della comunità educativa salesiana. Il lavorare insieme, nel rispetto dei ruoli, è una condizione fondamentale dell’educazione integrale dei giovani.

Un’ultima linea pedagogica di don Rinaldi riflette il contesto degli anni ’20 nel quale egli opera ed è l’accento da lui posto sulle Compagnie all’interno delle case salesiane in rapporto con l’Azione Cattolica e lo sviluppo delle missioni. Ora, se è vero che le compagnie nei collegi devono essere regolamentate ed armonizzate con i gruppi dell’Azione Cattolica, è anche necessario che queste restino fedeli alla loro identità così come l’ha pensata don Bosco. Non si tratta dunque solamente di conservare le tradizioni, ma anche di “rimettere in efficienza e far fiorire le Compagnie” sotto la guida dei Direttori e degli Ispettori, istituendo anche la giornata e i congressi ispettoriali delle Compagnie. L’apostolato tra i compagni, come un mezzo dell’educazione, trova un estensione naturale nello slancio missionario nel contesto di uno sviluppo forte delle missioni ad gentes.

 

2.2. Il pensiero pedagogico di Bartolomeo Fascie

La convinzione di don Rinaldi circa l’importanza di unire lo studio e la prassi è riflessa anche nelle direttive sullo studio ed il tirocinio del consigliere scolastico Bartolomeo Fascie che nel suo Metodo educativo di Don Bosco (1927) espone una linea molto simile circa la formazione dei salesiani-educatori. Don Fascie reagisce così anche a certe presentazioni troppo celebrative di don Bosco frequenti non solo in ambienti salesiani e che mettevano in evidenzia che don Bosco accolse il metodo preventivo così come gli veniva offerto dalla tradizione umana e cristiana. In realtà, afferma don Fascie, la vera grandezza e originalità del fondatore della Società Salesiana si trova «nel campo pratico dell’arte educativa e dell’opera dell’educatore». Il tirocinio, come applicazione pratica, viene visto come «il corso di studio della nostra pedagogia», che non può essere imparata dai libri, ma «dal libro della vita e della tradizione salesiana».

 

3. Il periodo del governo e delle sintesi di don Pietro Ricaldone (1932-1951)

3.1. L’importanza della formazione e dello studio della pedagogia

Nella sua prima lettera, don Ricaldone, si pone in continuità con gli ultimi anni del governo di don Rinaldi, convinto della necessità di non espandere le opere, ma di consolidare le esistenti e di investire nella formazione: «l’avvenire della nostra Società è soprattutto nelle case dove si forma il personale». Tale preoccupazione lo porta a privilegiare lo studio della pedagogia per i salesiani in formazione. Al CG15 del 1938 egli così si esprime: «Si è abusato della frase dello stesso Don Bosco: “Mi domandano il mio sistema! Ma se neppure io lo so!”. Un atto di umiltà non deve diventare un’arma contro di lui, e meno ancora una bandiera».

Questa decisa linea di impegno è riconfermata nel dopoguerra, con la fondazione dell’Istituto Superiore di Pedagogia del PAS a Torino. Durante il CG16 del 1947 si fa esplicita richiesta gli ispettori di provvedere a mandare almeno un chierico per studiare pedagogia al PAS. Il Sistema preventivo è reinterpretato dal superiore quale metodo scientifico basato sulla «filosofia perenne e la teologia cattolica, e insieme sui dati che ci offrono le altre scienze, quali la psicologia, la biologia, la sociologia ma insieme vogliamo che la scienza pedagogica sia libera da superstrutture, erronee o estranee».

Lo studio della pedagogia si articola attorno allo studio del catechismo e l’insegnamento classico. Sono valorizzati alcuni apporti della corrente delle scuole attive quali la valorizzazione delle attività didattiche, il metodo induttivo, la conoscenza psicologica degli alunni, la scuola serena e gioiosa, l’esclusione dei castighi, il rispetto della libertà dell’alunno e la valorizzazione del suo lavoro personale e dei suoi interessi. Le correnti della pedagogia positivista e naturalista vengono viste come una “pedagogia atea” di cui si nomina Dewey come uno degli esponenti. La funzione degli studi pedagogici del PAS è anche quella di combattere contro la pedagogia materialista ed atea.

3.2.  Amore e disciplina

Nella sua prima lettera sistematica, commentando la Strenna del 1933, don Ricaldone parla della carità come del primo principio della vita cristiana e anche dell’ambiente famigliare, plasmato dalla carità, contesto privilegiato dell’educazione salesiana. Il modello di carità si arricchisce di applicazioni, talvolta dettagliate e minuziose, che esemplificano la tradizione salesiana. Al termine della sua vita nel Don Bosco educatore, scritto nel 1951, egli propone la disciplina, legata all’autorità, come mezzo generale dell’educazione:

«Non basta avere buoni princìpi, idee chiare, concetti ben elaborati delle cose da farsi: oltre alla possibilità di tradurre tutto ciò in pratica, ci vuole quella tecnica, o meglio quella tattica speciale, e quello spirito che danno vita e valore al cosiddetto metodo […] Proprio in questa luce è bene […] interpretare anzitutto il principio di autorità, che nell’ambiente educativo mantiene in fiore la disciplina».

Si parla qui di un’autorità e di una disciplina che è tutta al servizio dell’educando, a lui vicina e che illumina l’intelligenza e soprattutto muove la volontà attraverso l’amore. La disciplina, come linea di governo e di educazione, viene collocata da don Ricaldone all’interno del contesto della canonizzazione di don Bosco e sviluppata soprattutto nella strenna del 1935 Fedeltà a Don Bosco Santo.

3.3.  Catechesi e formazione religiosa

Nell’occasione del “centenario dell’Opera Salesiana” del 1941 Pietro Ricaldone esorta i salesiani ad una “crociata catechistica” in quanto nell’istruzione religiosa egli vede il segreto della salvezza della gioventù senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà.

La comunicazione della «sapienza celeste, necessaria all’eterna salute, mediante l’insegnamento del Catechismo» si spiega attraverso il ricorso alla tradizione salesiana, nella definizione del fine e delle modalità dell’istruzione catechistica. L’argomentazione tipica di don Ricaldone riprende il Regolamento dell’Oratorio Festivo di don Bosco – un «libriccino, modesto di veste e di mole, [che] conteneva in germe tutta l’Opera Salesiana col suo spirito, col suo sistema, colle possibilità del suo multiforme sviluppo». Un segreto del successo dell’istruzione catechistica sta nella cura della formazione iniziale e permanente dei catechisti. Interessanti spunti sono offerti anche circa il metodo d’insegnamento.

Il cosiddetto “metodo del Vangelo” (descritto nella slide) coincide poi, nell’argomentazione di don Ricaldone, con il metodo induttivo che utilizza l’immaginazione, le figure, le immagini, gli esempi, gli oggetti reali «dall’ambiente fisico, sociale, religioso, storico in cui si vive». In questo modo si recuperano anche alcune istanze del movimento della scuola attiva che stimolano la partecipazione degli alunni fino ad arrivare ai livelli eroici di virtù.

In questa linea di pensiero si inserisce anche il discorso sui mezzi che attirano i giovani all’oratorio. Le attività sportive, ludiche e ricreative, soprattutto il calcio e il cinema, sono visti in una luce negativa: «In ogni dopoguerra noi assistiamo a una vera frenesia di divertimenti: si direbbe che quei poveri disgraziati, i quali durante lunghi anni vissero tra le privazioni e i pericoli dei campi di battaglia, sentano come un bisogno sfrenato di tuffarsi nei divertimenti. È una vera follìa! […] Siete al par di me persuasi dell’influenza satanicamente malefica del cinema» Nel CG16, in una discussione piuttosto prolungata, si concorda però non solo nella limitazione del cinema, ma si raccomanda anche la preparazione del personale perché sia in grado di valutare i film dal punto di vista educativo. Il tema collegato con i “divertimenti” è quello dell’educazione alla castità percepita piuttosto nell’ottica di una santa intransigenza. Sotto l’influsso dell’entusiasmo della canonizzazione di don Bosco, si prosegue nella linea di don Albera e Rinaldi ma con una tensione alla perfezione così alta, contro-culturale e con indicazioni così dettagliate, di renderla probabilmente poco sostenibile per la lunga durata in decenni che seguiranno.

 

Conclusioni

 

  • La fedeltà al metodo educativo salesiano che si esprime nel riprodurre i lineamenti di don Bosco nella pratica educativa:
  • la sua paternità e amorevolezza (in un contesto della pedagogia dei doveri)
  • il suo zelo per la salvezza dei giovani (equilibrato da obbedienza e pietà)
  • l’attenzione ai più poveri e alle strutture educative svantaggiate (oratorio)
  •  La vigilanza e la cura perché il sistema preventivo sia compreso e attuato nella sua integralità, vigilando sui riduttivismi antropologici e metodologici delle nuove correnti pedagogiche
  •  La formazione degli educatori tra lo studio della pedagogia (ISP) e la pratica educativa che forma "osmoticamente" (tirocinio) continuando la tradizione di Valdocco della "Scuola di pedagogia" e delle "Conferenze Capitolari"